sabato 29 novembre 2014

Il Galatino anno XLVII n° 19 del 28 novembre 2014

Tra il dire e il fare c’è di mezzo l’Arno

Le ultime intercettazioni giudiziarie scoprono che i nuovi affiliati giurano fedeltà alla ‘ndrangheta sui nomi di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, guappi della retorica risorgimentale e miti onnipresenti della toponomastica, insieme a Vittorio il vittorioso. E – notizia in apparenza scollegata – in questi stessi giorni il premier dall’insuperato Q.I., ovvero quoziente d’inaffidabilità, viene in visita pastorale in Terronia (e già, scende a tosare il suo gregge) ed afferma senza ombra di rossore in viso che il Meridione, dall’unità, ha subito danni incalcolabili. Apprendiamo con stupore questa “inedita” rivelazione, dalla stessa persona che in consiglio dei ministri destina il 90% e più dei fondi alle regioni settentrionali e che col famigerato decreto “Sblocca-Italia” concede alle multinazionali padane e straniere il definitivo via libera alle devastazioni petrolifere nel Sud, dove notoriamente non esiste inquinamento e si defunge di morte naturale in tarda età. La provenienza del giovanotto dal “Grandu’ato” dove visse e scrisse il Machiavelli, è indizio oggettivo del modus operandi e soprattutto governandi.

L’incongruenza tra ciò che annuncia e ciò che fa lo “statista” di Rignano sull’Arno mi esime dall’onere della prova di quanto dico, e cioè che non c’è iato nella politica nazionale nei confronti del nostro Sud: si continua oggi, similmente a 154 anni fa, a sfruttare e trasferire risorse umane ed economiche dal meridione alla tosco-padana. Ora, che la mafia – inesistente prima dell’unità, come affermava tra gli altri il povero giudice Chinnici –  e lo stato (comatoso) siano scesi a patti con reciproco vantaggio dal 1860 in poi, è cosa nota a molti. Anche a quelli che non hanno avuto accesso alle telefonate quirinalizie. Che questa entente cordiale sia la fonte battesimale delle fortune nordiste e dei problemi “sudici”, lo sanno ancora in troppo pochi. L’ignoranza (in senso etimologico) della nostra storia alimenta il potere del fascio dei partiti nazionali, nessuno escluso, e quindi è causa della nostra debolezza.

sabato 15 novembre 2014

Il Galatino anno XLVII n° 18 del 14 Novembre 2014

Vau de pressa*

Raccontano che una sera di alcuni anni fa, in un’autostrada urbana del nostro hinterland, teatro – come numerose altre – di improvvisate gare per auto e moto di serie, il rampollo di una nobile casata del luogo, giovenilmente vezzeggiando, andasse a stampagnare la propria utilitaria da 50.000 euro contro un palo dell’illuminazione pubblica, troncandolo di netto alla base e provocando un oscuramento del quartiere stile coprifuoco di guerra.
Dicono pure che, ancora fumanti gli airbag del veicolo proletario, si materializzasse un carro-attrezzi per rimuovere tanto i rottami dell’auto quanto i resti del lampione, mai più sostituito. E che il mattino seguente nulla restasse della gioconda collisione, neanche il buco nel marciapiede, alacremente riparato dagli gnomi, vulgo sciacuddhi.
Dimenticato in frettissima l’episodio, però gli abitanti del quartiere chiesero a gran voce che l’amministrazione ponesse rimedio con dei rallentatori a queste – non troppo gradite, per l’incolumità dei bambini e dei loro parenti – esibizioni virili di potenza, velocità ed abilità di guida. Corredando l’istanza con l’ampia casistica di incidenti accaduti o solo sfiorati.
Con i tempi fulminei della burocrazia, arriva dopo quasi un lustro la risposta del palazzo: si pongono in opera dei magnifici, colorati dossi “a segmento”, ingentiliti da una fighissima pista ciclabile che (mirabile coerenza) corre lungo i passi carrabili delle abitazioni del quartiere. Risultato: le corse si continuano a fare, di notte e di giorno, zigzagando con perizia rallystica tra i rallentatori. Si aggiunga che a pochi metri di distanza, ad un incrocio di scarsa visibilità, un segnale di stop risalente all’alto Medioevo vivacchia seminascosto dietro un grosso palo, forse scurnandosi della propria inutilità e vedovo della compianta segnaletica orizzontale.
Questo narrano gli abitanti di quella landa lontana (dal palazzo), questo Vi raccontiamo a mo’ di esempio. Fabula docet: noi di stirpe greca discepoli della logica aristotelica, noi che a quella uniformiamo idea e prassi, rileviamo pure che esiste un pensiero debole, un universo parallelo ed antitetico al nostro, che scandisce ritmi e modi della pubblica amministrazione.



* Per i non Salentini: vado di fretta 

sabato 1 novembre 2014

Il Galatino anno XLVII n° 17 del 31 Ottobre 2014

In articulo mortis

Luogo e tempo dei fatti: periferia galatinese, abitazione di edilizia popolare, qualche settimana fa. Una famiglia sta preparando all’ultimo viaggio un’anziana congiunta, con la maggiore dignità possibile. Gli operatori del 118, secondo etica professionale, assistono psicologicamente i parenti, non potendo fare altro che rilevare strumentalmente gli ormai impercettibili segni di vita della moribonda. Uno dei familiari decide allora di assicurarle l’estremo Sacramento da cattolica osservante, e corre alla vicina parrocchia a chiamare il prete. Quel sabato pomeriggio il parroco è impegnato e lo indirizza al viceparroco. Anche questo è immerso in improrogabili attività, quali non è dato sapere: e lo rimanda al parroco con un ping-pong per nulla edificante. Il familiare, soffocando in gola poco religiose considerazioni inadatte alla sacrestia ed alla triste circostanza, si accomiata veloce dai due indaffaratissimi prelati, esprimendo l’intenzione di rivolgersi per il pietoso ufficio ai Testimoni di Geova, che hanno la loro Sala del Regno a pochi metri di distanza.

Piccolo, insignificante episodio il cui macabro umorismo ci introduce ad una questione attuale. Posto che la Chiesa Cattolica Apostolica Romana continua a perdere fedeli (non chiamiamoli clienti, pur avendo un certo “moderno” sentire religioso parentela stretta con tale concetto), sarà il caso – per le alte sfere ecclesiastiche – di chiedersi se i motivi dell’emorragia insistano nei richiami mondani della società, oppure nella poca disponibilità di alcuni in abito talare ad intercettare la voglia di sacro, di trascendenza, che la stessa società esprime. Quel “fumo di Satana” di cui parlava il Beato Paolo VI, dai palazzi vaticani non arrivi in periferia spinto da venti profani.