Missioni di pace
Perché siamo in Afghanistan? Il compito del contingente ISAF, di cui le truppe italiane sono componente non secondaria, dovrebbe essere quello di garantire la sicurezza del governo insediato a Kabul dalla NATO nel 2001.
Ancora una volta si è intervenuti secondo logiche occidentali, specificamente americane, installando democrazia col metodo usato per esportare stupidi format televisivi, somministrabili con poche modifiche al palato di ogni telespettatore del globo. Si è preteso di imporre valori politici estranei ad un popolo fiero delle sue tradizioni, suddiviso in clan tribali e governato da tempo immemorabile da un parlamento del tutto originale, la Loya Jirga, assemblea dei notabili.
In Afghanistan, nel XIX secolo, tentò invano di metter piede l’allora potentissimo impero britannico, per contrastare l’espansione zarista verso l’Oceano Indiano: gli inglesi furono costretti ad alzare i tacchi dignitosamente, dopo dure sconfitte. Nel secolo scorso ci ha riprovato l’URSS, con identico risultato, tanto che quella poderosa campagna militare venne definita “il Vietnam sovietico”.
Adesso ci siamo noi al seguito degli USA, ufficialmente per riportare ordine, e sappiamo quali garbate maniere usino gli americani allo scopo: le bombe intelligenti, ma non tali da risparmiare villaggi e popolazioni inermi. In realtà difendiamo gli appetiti delle multinazionali yankee dell’energia e delle armi, in una vera guerra che contravviene all’art. 11 della Costituzione (in altri casi totem sacro ed inviolabile); tacciono maggioranza ed opposizione, in combutta.
Ci sarebbe anche da catturare un certo Osama Bin Laden, nemico pubblico n° 1 ma tanto utile alla causa di convogliare consenso intorno ai leader di una nazione in declino irreversibile (compito paragonabile al rinascente terrorismo italiano per la nostra screditata classe politica). Desta stupore che chi dispone di sistemi sofisticatissimi in grado di intercettare qualsiasi comunicazione in ogni sperduto angolo del mondo, di tecnologie satellitari capaci di leggere da centinaia di kilometri d’altezza il titolo del giornale che state leggendo seduti al parco, poi non abbia catturato un emiro barbuto nascosto tra brulle montagne afghane. È lecito supporre che il terrorista faccia più comodo in latitanza e che l’efficientissima intelligence statunitense abbia voluto distrarre lo sguardo.
Torno alla domanda iniziale: a chi giova la missione ISAF? Non ai nostri uomini, specialmente quei giovani volontari (a maggioranza “sudista”) convinti con quattro soldi a partire per vedersi rinnovata la ferma; non certo ai 36 di loro riportati a casa in una bara coperta dal Tricolore; di sicuro non alle loro vedove ed orfani. Ma in un’operazione che costa al contribuente 600 milioni all’anno, è probabile che qualche politico e qualche cinico manager di aziende energetiche o degli armamenti, stiano facendo i loro interessi, presenti e futuri. Nutriamo seri dubbi che siano anche i nostri.
Ancora una volta si è intervenuti secondo logiche occidentali, specificamente americane, installando democrazia col metodo usato per esportare stupidi format televisivi, somministrabili con poche modifiche al palato di ogni telespettatore del globo. Si è preteso di imporre valori politici estranei ad un popolo fiero delle sue tradizioni, suddiviso in clan tribali e governato da tempo immemorabile da un parlamento del tutto originale, la Loya Jirga, assemblea dei notabili.
In Afghanistan, nel XIX secolo, tentò invano di metter piede l’allora potentissimo impero britannico, per contrastare l’espansione zarista verso l’Oceano Indiano: gli inglesi furono costretti ad alzare i tacchi dignitosamente, dopo dure sconfitte. Nel secolo scorso ci ha riprovato l’URSS, con identico risultato, tanto che quella poderosa campagna militare venne definita “il Vietnam sovietico”.
Adesso ci siamo noi al seguito degli USA, ufficialmente per riportare ordine, e sappiamo quali garbate maniere usino gli americani allo scopo: le bombe intelligenti, ma non tali da risparmiare villaggi e popolazioni inermi. In realtà difendiamo gli appetiti delle multinazionali yankee dell’energia e delle armi, in una vera guerra che contravviene all’art. 11 della Costituzione (in altri casi totem sacro ed inviolabile); tacciono maggioranza ed opposizione, in combutta.
Ci sarebbe anche da catturare un certo Osama Bin Laden, nemico pubblico n° 1 ma tanto utile alla causa di convogliare consenso intorno ai leader di una nazione in declino irreversibile (compito paragonabile al rinascente terrorismo italiano per la nostra screditata classe politica). Desta stupore che chi dispone di sistemi sofisticatissimi in grado di intercettare qualsiasi comunicazione in ogni sperduto angolo del mondo, di tecnologie satellitari capaci di leggere da centinaia di kilometri d’altezza il titolo del giornale che state leggendo seduti al parco, poi non abbia catturato un emiro barbuto nascosto tra brulle montagne afghane. È lecito supporre che il terrorista faccia più comodo in latitanza e che l’efficientissima intelligence statunitense abbia voluto distrarre lo sguardo.
Torno alla domanda iniziale: a chi giova la missione ISAF? Non ai nostri uomini, specialmente quei giovani volontari (a maggioranza “sudista”) convinti con quattro soldi a partire per vedersi rinnovata la ferma; non certo ai 36 di loro riportati a casa in una bara coperta dal Tricolore; di sicuro non alle loro vedove ed orfani. Ma in un’operazione che costa al contribuente 600 milioni all’anno, è probabile che qualche politico e qualche cinico manager di aziende energetiche o degli armamenti, stiano facendo i loro interessi, presenti e futuri. Nutriamo seri dubbi che siano anche i nostri.