venerdì 27 maggio 2011

Il Galatino anno XLIV n° 10 del 27 Maggio 2011

Quinto referendum

Con l’espressione di voto sui quattro quesiti referendari avremo manifestato in forma virtuale ma inequivocabile la nostra volontà di non subire passivamente la “privatizzazione del pensiero”: che appunto è l’oggetto di una quinta, implicita domanda all’elettore. Potremo invece delibare la parvenza di sovranità popolare rappresentata dai referendum abrogativi, sulle conseguenze dei quali il governo ostenta apertis verbis preventiva indifferenza, prova ulteriore della incompiutezza di questa democrazia.

Privatizzazione del pensiero, dicevamo forse con eccesso di enfasi, così come si intende fare con l’acqua e, non è da escludere a priori, con l’aria che respiriamo. Perciò si vada a votare, anche se i tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica non autorizzano eccessive speranze. Il pessimismo nasce, ad esempio, dalla constatazione di aver subìto dai media una overdose di minuziosi dettagli sul matrimonio dei reali d’Inghilterra, con osservazioni acute sviscerate esaustivamente in interminabili servizi tv da giganti del pensiero moderno (Alfonso Signorini e colleghi); possiamo affermare altrettanto dei referendum del 12 giugno? Eppure sono questioni inerenti la vita pratica e la salute di ognuno di noi; oltre che, naturalmente, l’applicazione del dettato costituzionale in materia di equiparazione di fronte alla legge tra elettore ed eletto.

Se il foglio che state leggendo, con spirito di civiltà, dedica ampio spazio ai referendum (ci si perdoni l’autopromozione), tacciono i mezzi di informazione nazionali, ipnotizzati dai poteri politici e, soprattutto, finanziari. Invece godono ottima salute gli adepti del satyāgraha, le profetesse della nonviolenza. In altri tempi, per lievi omissioni mediatiche additate come vulnus al diritto di informazione, avrebbero fatto lo sciopero della fame. Oggi la comoda, remunerata poltrona da europarlamentare o l’incarico prestigioso in organizzazioni “benefiche” dell’ONU sopiscono ogni velleità di ribellione al sistema.

Il Cazzilarghismo", categoria aristotelica - 27 Maggio 2011

Gentile Professore,

la tendenza al vanto spesso immotivato, peculiarità tutta galatinese, è all’origine degli epiteti (carzilarghi o cazzilarghi, “z” dolce) che descrivono sinteticamente questa nostra simpatica guasconeria. Difetto innocuo o dote (a seconda dei punti di vista) contrapposto, per motivi di campanilismo anche sportivo, alla laboriosità mercantile dei passaricchi magliesi, che comunque della nostra vanagloria hanno fatto bottino elettorale da tempo. Non troviamo somiglianze fisiche o caratteriali con la bonomia dei leccesi musimoddhri, sembrando quest’ultima ‘ngiuria adatta a chi conversa biascicando con l’affettazione del cittadino del capoluogo.

Proprio nei giorni della settimana andrologica ci chiediamo se invece la categoria aristotelica del cazzilarghismo faccia riferimento ad una dote nascosta di noi Galatinesi, “tra tutte le virtù, la più indecente” cantava De Andrè. Se, insomma, l’abbigliamento dai larghi pantaloni che l’onomastica locale ci attribuisce, secondo nunnu Gaetano, sia dovuto alla necessità di contenere più comodamente un esuberante apparato bellico. Sulla dotta questione converrebbe consultare il corpo elettorale femminile Galatinese, giudice unico ed inappellabile.

Nell’attesa, ognuno (letteralmente) guardi il suo e, imitando il protagonista del romanzo di Moravia “Io e lui”, si consoli della tristezza dei tempi attaccandosi all’…….apposito sostegno. Ciò che appunto, con felice incoscienza, da qualche anno facciamo noi cazzilarghi.

sabato 14 maggio 2011

La volpe e la maschera tragica - 14 Maggio 2011

Fabularum Phaedri – Liber primus – VII. Vulpes ad personam tragicam

Personam tragicam forte vulpes viderat; quam postquam huc illuc semel atque iterum verterat, “O quanta species” inquit “cerebrum non habet!”.

Hoc illis dictum est quibus honorem et gloriam Fortuna tribuit, sensum communem abstulit.

Primu libru de li cunti de Fedru – VII. La vurpe e la maschera tragica

Ppe casu la vurpe vide ‘na maschera; la vota e la gira qualche fiata, poi “Ce caleddha”, face, “ma nu porta cervieddhu!”

Cusì dice la gente de quiddhi ca la furtuna bbinchiau de cloria e onori, ma li fice poveri de sensu.

Traduco liberamente nel sanguigno vernacolo galatinese un popolare brano di Fedro, per una comprensione più agevole da parte della persona a cui è dedicato: nella speranza che si accorga del ridicolo in cui i suoi atteggiamenti hanno gettato la Città (sono un inguaribile ottimista). Il “caleddha”, naturalmente, è una iperbole, non ha valenza di giudizio estetico.


Il Galatino anno LXIV n° 9 del 13 Maggio 2011

Morti dimenticati

Passa sugli schermi uno spot educativo, sotto l’alto patronato della Presidenza del Consiglio. Un affidabile nonnetto (impersonato dai testimonial Alain Elkann e Piero Angela) esorta il nipotino a ricercare, tra documenti e vecchie foto di famiglia, ricordi sulla persecuzione degli Ebrei in Italia e sulla Shoah. Immaginiamo che l’intenzione sia di tramandare memorie di quella tragedia (e delle colpe collettive e personali di chi non vi si oppose), portandola ad esempio dei genocidi passati e recenti: proponimento condivisibile e politicamente corretto.

Con questo spirito sarebbe giusto, a corollario delle celebrazioni per i 150 anni della cosiddetta unità d’Italia, che si usasse altrettanta correttezza politica sui fatti del 1860. E magari che si ricordasse il milione di vittime militari e civili dell’aggressione sabauda (“Non si perda tempo a far prigionieri”, fu il comando di Cavour), i 54 paesi rasi al suolo, i 23000 soldati borbonici deportati in Piemonte nel lager di Fenestrelle, a 2000 metri d’altezza, e lì lasciati morire di fame e di freddo, poi sciolti nella calce viva. Su un muro di quella fortezza campeggia ancora un ammonimento: “Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce”, sinistra anticipazione di “Arbeit macht frei” sul cancello di Auschwitz, venuto quasi un secolo dopo. Senza eccessi retorici, appare evidente come il nazismo abbia avuto un precursore nella politica sabauda. Delle atrocità piemontesi su civili e belligeranti non abbiamo prove fotografiche come per la Shoah, rimangono rare immagini dei cadaveri di patrioti duosiciliani (“briganti e brigantesse”) in oltraggiosa esibizione pubblica come monito dopo il loro assassinio; preziosi documenti d’epoca sono custoditi gelosamente presso l’Ufficio Storico dell’Esercito e resi accessibili con difficoltà. Alle vittime del nostro genocidio non si restituisce, non diciamo l’onore, ma neppure la dignità di Uomini che invece è stata resa agli ebrei dell’Olocausto, quando nei lager erano semplici numeri e combustibile da forno crematorio. Di loro ci restano mausolei e ricca documentazione, delle vittime duosiciliane alcuni teschi nel Museo Lombroso a Torino, reperti della pseudo-scientifica “antropologia criminale” lombrosiana. Popoli uniti dalla comune appartenenza agli untermenschen, spregevole razza subumana. Echi di quell’abominio risuonano nelle “parole in libertà” di certi esponenti dell’attuale governo: corsi e ricorsi storici.

Parimenti sarebbe opportuno rendere omaggio alla diaspora delle decine di milioni di emigrati dal Sud che sostennero l’economia italiana con le loro rimesse in valuta pregiata; infelici a cui fu estorta (quale bonus per i lavoratori del Nord) una tassa esosa persino per emigrare, scampando alla deportazione di massa nel Borneo o in Amazzonia progettata in gran segreto dai primi ministri sabaudi mediante accordi con alcuni governi europei.

In America, paese contraddittorio e detestabile per tanti versi, però si onorano insieme vincitori e vinti della Guerra di Secessione che diede origine agli Stati Uniti (questi sì, uniti davvero!) come li conosciamo oggi. Se in Italia ciò non avviene, se si piega alla damnatio memoriae la storia gloriosa della Nazione quasi millenaria di Ruggero d’Altavilla, di Federico II, dei Borbone, allora è il sintomo dell’intrinseca fragilità di uno Stato nato male e sviluppato asimmetricamente, di questa unità solo burocratica, lontana dal sentimento popolare nonostante fastose celebrazioni e discorsi altisonanti.