Quinto referendum
Con l’espressione di voto sui quattro quesiti referendari avremo manifestato in forma virtuale ma inequivocabile la nostra volontà di non subire passivamente la “privatizzazione del pensiero”: che appunto è l’oggetto di una quinta, implicita domanda all’elettore. Potremo invece delibare la parvenza di sovranità popolare rappresentata dai referendum abrogativi, sulle conseguenze dei quali il governo ostenta apertis verbis preventiva indifferenza, prova ulteriore della incompiutezza di questa democrazia.
Privatizzazione del pensiero, dicevamo forse con eccesso di enfasi, così come si intende fare con l’acqua e, non è da escludere a priori, con l’aria che respiriamo. Perciò si vada a votare, anche se i tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica non autorizzano eccessive speranze. Il pessimismo nasce, ad esempio, dalla constatazione di aver subìto dai media una overdose di minuziosi dettagli sul matrimonio dei reali d’Inghilterra, con osservazioni acute sviscerate esaustivamente in interminabili servizi tv da giganti del pensiero moderno (Alfonso Signorini e colleghi); possiamo affermare altrettanto dei referendum del 12 giugno? Eppure sono questioni inerenti la vita pratica e la salute di ognuno di noi; oltre che, naturalmente, l’applicazione del dettato costituzionale in materia di equiparazione di fronte alla legge tra elettore ed eletto.
Se il foglio che state leggendo, con spirito di civiltà, dedica ampio spazio ai referendum (ci si perdoni l’autopromozione), tacciono i mezzi di informazione nazionali, ipnotizzati dai poteri politici e, soprattutto, finanziari. Invece godono ottima salute gli adepti del satyāgraha, le profetesse della nonviolenza. In altri tempi, per lievi omissioni mediatiche additate come vulnus al diritto di informazione, avrebbero fatto lo sciopero della fame. Oggi la comoda, remunerata poltrona da europarlamentare o l’incarico prestigioso in organizzazioni “benefiche” dell’ONU sopiscono ogni velleità di ribellione al sistema.
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