Morti dimenticati
Passa sugli schermi uno spot educativo, sotto l’alto patronato della Presidenza del Consiglio. Un affidabile nonnetto (impersonato dai testimonial Alain Elkann e Piero Angela) esorta il nipotino a ricercare, tra documenti e vecchie foto di famiglia, ricordi sulla persecuzione degli Ebrei in Italia e sulla Shoah. Immaginiamo che l’intenzione sia di tramandare memorie di quella tragedia (e delle colpe collettive e personali di chi non vi si oppose), portandola ad esempio dei genocidi passati e recenti: proponimento condivisibile e politicamente corretto.
Con questo spirito sarebbe giusto, a corollario delle celebrazioni per i 150 anni della cosiddetta unità d’Italia, che si usasse altrettanta correttezza politica sui fatti del 1860. E magari che si ricordasse il milione di vittime militari e civili dell’aggressione sabauda (“Non si perda tempo a far prigionieri”, fu il comando di Cavour), i 54 paesi rasi al suolo, i 23000 soldati borbonici deportati in Piemonte nel lager di Fenestrelle, a 2000 metri d’altezza, e lì lasciati morire di fame e di freddo, poi sciolti nella calce viva. Su un muro di quella fortezza campeggia ancora un ammonimento: “Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce”, sinistra anticipazione di “Arbeit macht frei” sul cancello di Auschwitz, venuto quasi un secolo dopo. Senza eccessi retorici, appare evidente come il nazismo abbia avuto un precursore nella politica sabauda. Delle atrocità piemontesi su civili e belligeranti non abbiamo prove fotografiche come per la Shoah, rimangono rare immagini dei cadaveri di patrioti duosiciliani (“briganti e brigantesse”) in oltraggiosa esibizione pubblica come monito dopo il loro assassinio; preziosi documenti d’epoca sono custoditi gelosamente presso l’Ufficio Storico dell’Esercito e resi accessibili con difficoltà. Alle vittime del nostro genocidio non si restituisce, non diciamo l’onore, ma neppure la dignità di Uomini che invece è stata resa agli ebrei dell’Olocausto, quando nei lager erano semplici numeri e combustibile da forno crematorio. Di loro ci restano mausolei e ricca documentazione, delle vittime duosiciliane alcuni teschi nel Museo Lombroso a Torino, reperti della pseudo-scientifica “antropologia criminale” lombrosiana. Popoli uniti dalla comune appartenenza agli untermenschen, spregevole razza subumana. Echi di quell’abominio risuonano nelle “parole in libertà” di certi esponenti dell’attuale governo: corsi e ricorsi storici.
Parimenti sarebbe opportuno rendere omaggio alla diaspora delle decine di milioni di emigrati dal Sud che sostennero l’economia italiana con le loro rimesse in valuta pregiata; infelici a cui fu estorta (quale bonus per i lavoratori del Nord) una tassa esosa persino per emigrare, scampando alla deportazione di massa nel Borneo o in Amazzonia progettata in gran segreto dai primi ministri sabaudi mediante accordi con alcuni governi europei.
In America, paese contraddittorio e detestabile per tanti versi, però si onorano insieme vincitori e vinti della Guerra di Secessione che diede origine agli Stati Uniti (questi sì, uniti davvero!) come li conosciamo oggi. Se in Italia ciò non avviene, se si piega alla damnatio memoriae la storia gloriosa della Nazione quasi millenaria di Ruggero d’Altavilla, di Federico II, dei Borbone, allora è il sintomo dell’intrinseca fragilità di uno Stato nato male e sviluppato asimmetricamente, di questa unità solo burocratica, lontana dal sentimento popolare nonostante fastose celebrazioni e discorsi altisonanti.
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