venerdì 29 novembre 2013

Il Galatino anno XLVI n° 19 del 29 Novembre 2013

Se telefonando

È ancora un’intercettazione telefonica a delineare la curva discendente di un uomo pubblico. La familiarità acclarata tra Vendola e la famiglia Riva, proprietaria dell’ILVA, non aggiunge elementi di novità al quadro comportamentale del Presidente Poeta, essendo già note le sue frequentazioni con la Confindustria nordista, inquinatrice di coscienze oltre che di ambiente. Quello che forse ha deluso – ma solo chi si era illuso, sulla genuinità della proposta vendoliana – è l’evidente contaminazione da contatto col cinico animus dei Riva, il cui rampollo Fabio viene a sua volta intercettato mentre (latitante) si esprime con misurata eleganza sui morti tarantini per tumore: “Minchiate!”.
En passant: l’acciaieria ILVA, di proprietà pubblica, valore stimato dell’epoca 20.000 miliardi di lire, fu ceduta dall’onesto Romano Prodi ai Riva per 1.649. Uno dei tanti “affari” delle privatizzazioni-spoliazioni del patrimonio dello Stato, eseguite per conto terzi dalla Banda Bassotti (la ciurma di basso rango del “Britannia”).

Per onestà intellettuale prendiamo atto dell’autodifesa di Vendola Nicola detto Nichi, criptica come le sue immaginifiche acrobazie lessicali, lubrificante necessario ad ogni terapia politica – per quanto dolorosa – somministrata alla Gente di Puglia non per os ma per altra via. E ricordiamo una campagna elettorale giocata sulla “diversità” del nostro Governatore, che poi tanto diverso dalla casta ha dimostrato di non essere. Però dobbiamo pur trarre da questa ed altre misere cronache una morale universale. Non sono gli uomini, non è il loro colore politico, non sono infine i comportamenti, tutti omologati verso il basso, ad imporre il radicalismo della tabula rasa. È un edificio istituzionale corrotto dalle fondamenta che va demolito: ma già si vedono le prime squadre di picconatori radunarsi in vista del 9 dicembre. 

venerdì 15 novembre 2013

Il Galatino anno XLVI n° 18 del 15 Novembre 2013

Le sue prigioni

Come impiega il suo tempo una ministra della repubblica bananiera, oltre a guardare i sigilli? Cura qual premurosa badante la salute cagionevole dello Stato, anziano di debole Costituzione? Riordina commi e pandette e spolvera codici nella Regia Libreria di Giorgio II? Presenzia a convegni sui problemi della giustizia – inutili e puntuali ogni stagione come le piogge d’autunno – o passa in rassegna impettiti plotoni di guardie carcerarie, al ritmo simil-marziale “dell’elmo di Scipio”, la mazurka variata del duo Mameli-Novaro?
Certamente una ministra fa tutto questo (“Una ministra lei? Ma mi faccia il piacere, al massimo una minestrina scaldata!” direbbe Totò), ma anche altro. Principalmente telefona, eccome se telefona! Con scatto alla risposta, ovviamente: scattano tutti sull’attenti in soccorso di una bionda fanciulla ospite degli “alberghi” di Stato, ragazza che per caso fortuito appartiene alla famiglia degli ex datori di lavoro del figlio della suddetta ministra. Un piccolo caso, appunto: col diminutivo che state immaginando.

Negli stessi giorni in cui assistiamo all’ultima commedia degli equivoci, il prestante (nel senso che si presta, alle imposizioni dei suoi danti causa stranieri) autista del governo Alfetta – e chiedo venia agli estimatori della vecchia bella auto, essendo io pure tra questi – con grande sprezzo del ridicolo chiede che “l’Italia non sia guardata come il Paese più burocratico e borbonico”. Il nipotino di zio Gianni ignora o fa finta di ignorare che, se il Paese è in queste condizioni, lo dobbiamo ai suoi avi affamati ed indebitati che 153 anni fa scesero, pezze al sedere, ad impadronirsi con la violenza di uno Stato ricco e governato sobriamente. Bisogna spiegarlo, al giovanotto. Ma con delicatezza, per evitargli traumi.