Di macchine, e di altre cose
Possiedo un'auto italiana, storica marca gloriosa che un osannato manager intende far sparire. Non dico vendere ai tedeschi oppure ai cinesi, con magari qualche miliardo di plusvalenza: no, chiudere del tutto.
La mia vecchia (9 anni, con l'attuale metro di giudizio, sono un'età veneranda) ha percorso senza problemi 200.000 kilometri, con una manutenzione non più che ordinaria. Consuma pochissimo, non inquina, è comoda ed elegante: la mia spesa migliore per un'auto. Ho guidato francesi, tedesche e le tanto celebrate giapponesi, che infatti mi hanno fatto bestemmiare in giapponese (con accento di Yokohama, per la precisione).
In conclusione, un mezzo che non ho possibilità economica, ma soprattutto intenzione, di cambiare. Tanto bella che non viene più prodotta da qualche anno: in obbedienza alla teoria dell'obsolescenza programmata, cioè quella "strategia volta a definire il ciclo vitale di un oggetto in modo da limitarne la durata ad un periodo prefissato". Un aggiornamento estetico e meccanico di poco conto sarebbe invece bastato a mantenere sul mercato un prodotto valido.
Costruire automobili è un esercizio di buona economia ma richiede passione. Con minimo sforzo si può essere definiti geni della finanza, visto che ai nostri giorni l'abilità consiste principalmente nell'accanirsi sulla parte indifesa del sistema, i lavoratori. Ma se non si capisce un perno sferico di meccanica oppure non si è posseduti dal sacro fuoco dell'amore per l'auto, ci si dovrebbe occupare d'altro: forse meglio di banche. E di rapine. A mano armata? Ma no, parliamo di quelle a volto scoperto, consumate nei consigli d'amministrazione e molto ben remunerate. Di quelle senza conseguenze legali, per intenderci.