Autorevolezza
ed autoritarismo
Credo che la figura paterna sia il “ruolo”
che ha subìto l’evoluzione maggiore nel corso dell’ultimo secolo. Dal punto di
vista storico, il cambiamento potrebbe farsi risalire all’ingresso imponente
delle donne in fabbrica e negli uffici, per ricoprire i posti lasciati dagli
uomini chiamati al fronte nel corso delle due guerre mondiali. Quella
rivoluzione sociale, poi il femminismo e le lotte sessantottine per
l’emancipazione dall’egemonia del modello cattolico, hanno radicalmente
modificato l’architettura del nucleo fondante delle società occidentali
(mediterranee in particolare), in cui la concezione affettiva oltre che “patrimoniale”
della famiglia tradizionale aveva come perno e sovrano il pater familias,
depositario di autorità indiscussa.
Dopo gli anni della crisi di identità
maschile conseguente ad una palingenesi del microcosmo familiare, al
sovvertimento della sua gerarchia, alla rapida trasformazione dei rapporti tra
genitori e figli e tra gli stessi genitori, è venuta alla luce una figura di
padre totalmente diversa. Mi piace portare un piccolo esempio, vivo nei ricordi
e per me illuminante su una certa epoca. Mio padre, nato nel periodo storico
del nascente fascismo, proveniva da una famiglia della piccola borghesia in cui
forma e sostanza dei rapporti umani coincidevano senza incertezze. Papà, il
fratello e le sorelle si rivolgevano al padre con il “voi”, in maniera del
tutto spontanea ed affettuosa, riconoscendo come valido l’esempio di vita a
loro prospettato e l’autorevolezza del ruolo genitoriale. Un modo di porgere
che a me sembrava molto singolare ed emblematico di un certo distacco tra
genitore e figli, un’etichetta anacronistica. La realtà dei fatti andava oltre
le apparenze, perché l’esteriore formalismo nascondeva un amore filiale sincero
e ricambiato. A mia volta, come uomo di questa epoca, ho impostato con i miei
figli un rapporto di intenso affetto tra pari, non “protocollare” come a me
appariva (erroneamente, dico ora) quello della generazione che mi ha preceduto,
e comunque teso a suggerire una spontanea adesione al modus vivendi
improntato a regole etiche universalmente accettate: abusando delle ben note
parole di Kant, “il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di
me”. Confido di aver formato due giovani adulti rispettosi di sé e del prossimo,
ed il buon esito delle loro relazioni sociali me lo conferma.
Vengo alla cronaca. Apprendo che gruppi
numerosi di adolescenti molestano i cittadini, in pieno centro, nella sicurezza
dell’impunità. Leggo talvolta (e questo è un refrain obiettivamente
stucchevole) che “è la società/la scuola ad aver fallito”. Opinione personale,
pertanto discutibile quanto si vuole: se il padre è una figura assente, o se il
suo ruolo svilito si limita a “staccare l’assegno” della microcar; se
questo genitore-educatore confonde autorevolezza ed autoritarismo; se il senso
del dovere nell’adolescente è sostituito dalla pretesa dei propri (veri o
accampati) diritti anche a discapito di quelli del prossimo, allora non è la
società o la scuola ad aver sbagliato, ma chi non ha attrezzato il “pargolo” di
mezzi educativi e patrimonio etico conformi al retto vivere in comunità.