Donne e motori
Attribuiscono ad Henry Ford, fondatore della
nota casa automobilistica, un aforisma: “Quello che non c’è, non si rompe”. Il
successo di vendite delle sue vetture si è basato inizialmente sulla semplicità
meccanica e l’assenza di accessori inutili, oltre che su un prezzo accessibile
al cliente medio.
Raccontano pure che l’industriale americano
si togliesse il cappello al passaggio delle Alfa Romeo, in segno di ammirazione
per quel marchio. Non è un caso che le auto con lo stemma del “biscione” siano
tra le più ricercate nel mercato dei veicoli d’epoca, a quotazioni notevoli.
Quello delle automobili è un settore saturo.
La transizione verso la propulsione elettrica, sebbene agevolata fiscalmente,
non decolla, sia per il prezzo iniziale che per l’ancora scarsa diffusione di
stazioni di ricarica. La concentrazione dei marchi ha poi creato un
appiattimento di linee e meccaniche: si comprende perciò lo stupore di chi
acquista la prestigiosa auto tedesca, per scoprire sotto il cofano un
proletario motore francese, neanche tra i più affidabili. Un esempio fra tanti.
Questo Paese è stato un tempo la fabbrica di
eccellenze su quattro ruote. L’ultima generazione di industriali, che di
italiano non ha più neanche il cognome, ha deciso che la finanza abbia appeal
maggiore della meccanica di pregio, ed ha quindi ceduto ad un gruppo
internazionale a guida francese il controllo del settore nazionale dell’auto.
La conseguenza diretta è la perdita di impianti, posti di lavoro, know-how,
come testimonia l’azzeramento della gamma di un marchio noto un tempo per le
vittorie nei rally e per l’eleganza e raffinatezza delle vetture. Ed il brand
di auto sportive più noto al mondo è lontanissimo ormai da anni dai podi
della Formula 1.
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