mercoledì 30 giugno 2010

Inedito dantesco - 30 Giugno 2010

La scorsa notte mi è apparso in sogno Dante Alighieri. Avrei preferito, in tutta sincerità, altra e più appetibile epifania onirica.... magari Manuela Arcuri, oppure Laetitia Casta, mi sarei anche accontentato del Ministro Carfagna (merita, merita....), ma tant'è. Il Sommo Poeta ha voluto rendermi (indegno) latore d'un canto infernale inedito, che ho provveduto a trascrivere appena sveglio come fissato nella memoria vigile del mattino. Lascio ad appassionati dantisti il compito di decifrare i versi del Divino: infatti "il senso lor m'è duro". E chi sono io per provare ad interpretare Dante?


In loco ameno, nomato Salento,
col duca mio serenamente gìa,
quando le strida, il compianto, il lamento
ci mossero al mezzo de la via:

giunti eravamo in nobile cittade
però caduta in lenta agonia.
Furono ricche un tempo sue contrade;
li antichi Greci la disser Galatina.

Di quell’urbe e de le sue strade
nulla apparisce mò, se non ruina.
Di quel ch’ivi vedemmo, e distruzioni,
e ruberie e mala dottrina,

qui scriveremo sanza allusioni.
O Nicola, o Piero, che poeti
preclari siete per molte canzoni,
sostenete i vostri esegeti

con l’essemplo di vostre rime sparse.
Disveleremo li mali segreti
de la genìa di laide comparse
che fè strame de l’urbe di San Pietro.

Tosto che fummo ivi, lesta comparse
dinanzi a me, ed al mio duca dietro,
una che non pareaci pulzella
sì che ‘l maestro disse “Vade retro!”.

Tutto sembiava tranne quieta e bella.
“I’ son colei che volle Ruggero
di suo partito far locale ancella.
Furba scalzai un uom pulito e vero;

faccio le veci del primo cittadino”.
Questa ci mosse a disgusto sincero
con sue verba. Poscia a capo chino
riprendemmo mesti nostro andare.

“Appo quel loco che Raimondello Orsino
Prence del Balzo eresse ad altare
fan commercio d’i posti di comando”.
Verso noi diè inizio a parlare

femminea voce severa, e di rimando
rogammo lei: “Chi se’, alma gentile,
che tanto aperta vai argomentando?”.
“Quella son io che il dieciotto di aprile

ne l’aspra pugna non ebbe vittoria:
fui terza. Ed ora nel civile
urbano consiglio trovo mia gloria
nunciandovi vergogne e ruberie;

Daniela sono, e resti a la storia
di Galatina, che mai in bracerie,
com’altra fa, presterò mio intelletto.”
Indi si tacque. E nostre bramosie

di canoscer, con sommo dispetto,
altri nomi, altri guai, altra sventura
de la cittade che fu cuna e tetto
a uomini di scienza e di cultura,

fur satisfatte da scriba valente.
Fu elli, ed è, capitano di ventura
d’un essercito d’un solo combattente.
Pugna l’uomo in guisa singolare:

ogne nova diffonde prestamente,
che nulla resti ignoto, a disvelare
le violenze de la politica antica
poi che novella vuolsi appellare.

Ei ci menò ne la cittade amica
per quella porta ch’onora San Biagio.
Appena fummo ivi, come formica
che indugia alquanto, procedendo adagio,

nostri olfatti fur colti da ‘l fetore,
l’etterno lezzo, che sommo disagio
reca a le genti ch’ivi han dimore.
E noi a lui: “Favella, Raimondo,

chi colpa, chi crea tale orrore,
chi a questa civitate così immondo
genera danno?” Ei per chiare parole:
“In queste calli, non v’el nascondo,

per vizio antico, mala gente suole
di pattume, scarti et altra fetenzia
farne cumulo. E poscia si vuole
che resti ripulita ogne via

come che sia in oppido onesto.
Ma andiamo oltre”. E quale sia
duce che guidi schiera, pur questo
gran condottiero ambo ci mena

per uno stretto calle che dissesto
fu sempiterno, fando triste scena,
d’incuria e di nequizia. E, come dico,
poi a la “Chiazza” ove s’incatena

Chiesa Matrice a quel borgo antico
che porta nostri passi al bel palazzo
là ‘ve nuovo governo impudico
a’ congiunti, a’ vassalli diè sollazzo.

Non fu primo né ultimo a tal fatta:
che pria che questo, di simile andazzo
menava vanto compagine disfatta,
e pria di questa ancor d’altre disgrazie

patì nostra cittade. A rima esatta
chiudo il mio dire, anco per dir “grazie”
al paziente lettore di tal verso.
E quinci fien le nostre ricchie sazie.

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