Tanta festa, poca farina, niente forca
Esultiamo per la festa nazionale del 17 marzo, se ne sentiva il bisogno: si vorrebbe ricordare quel giorno del 1861 in cui a Torino il parlamento di uno staterello periferico proclamò re d’Italia il suo monarca, usurpatore con violenza ed inganno di altrui regni e trafugatore delle ricchezze private dei Borbone.
Comunque dimentichiamo polemiche e divisioni politico-geografiche, simulando un entusiamo che in Italia accende solo sparuti esponenti della nomenklatura. Vorremmo trovare, per l’occasione, un simbolo, un’idea-forza che rappresenti in sintesi l’unione di popoli “calpesti e derisi”: potrebbe essere appunto il nostro inno nazionale, adottato provvisoriamente alla fine della guerra, e sappiamo che in questo paese nulla è più definitivo del provvisorio. Già nell’incipit (“Fratelli d’Italia”) denuncia ascendenze massoniche, in omaggio all’apporto fondamentale di quella istituzione alla causa unitaria, quindi con aperto anticlericalismo, come in uso all’epoca. Si perdoni il giudizio musicale tranchant, ma quel motivetto orecchiabile ci pare non più che una tarantella triste ed inutilmente lunga, un ballabile inadatto alla funzione perché privo della solennità e del ritmo propri di un componimento patriottico.
Potrebbe anche meritatamente rappresentarci la figura dell’emigrante, ma non l’ideologico esule di lusso alla Toni Negri, alla Cesare Battisti. Parliamo di uno dei connazionali, per la maggior parte del Meridione, costretti a cercar lavoro lontano da casa, più di 60 milioni dall’unità ai giorni nostri. Prima scalzi e con le valige di cartone, adesso con un master prestigioso nel curriculum ed il computer portatile; allora “terroni” analfabeti, oggi intellettuali superflui nel paese di Platinette e Lele Mora.
Ma forse abbiamo trovato: l’epitome storica di una nazione vassalla, degna erede del Regno di Sardegna, l’icona moderna di un sedicente stato sovrano che “ospita” sul proprio territorio oltre 110 basi ed installazioni militari straniere (anche nucleari), è un primo ministro che bacia la mano al capo berbero in visita in Italia. E tanto basti.
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